IL GIUDICE Sciogliendo la riserva assunta nella causa promossa da Banca Nazionale dell'Agricoltura S.p.a. contro fallimento Giuliana Cremascoli Chemicals S.r.l. osserva quanto segue; Nel presente giudizio avente ad oggetto opposizione allo stato passivo ex art. 98 della legge fallimentare si discute relativamente alla ammissibilita' del credito insinuato dalla Banca Nazionale dell'Agricoltura e alla misura della ammissione medesima in relazione alla mancata dimostrazione del credito medesimo nelle sue varie componenti, sia con riferimento ai titoli relativi alla formazione degli importi pretesi a titolo di capitale e a titolo di interessi, sia con riferimento alla, da parte del fallimento, contestata legittimita' della applicazione dell'anatocismo sugli interessi, calcolati sulla base della cosiddetta capitalizzazione trimestrale. Sotto questo profilo la questione della possibilita' di applicare la capitalizzazione trimestrale degli interessi (attuata peraltro non solo nel corso dello svolgimento del contratto di conto corrente, ma anche dopo la chiusura del conto, laddove, a seguito della risoluzione del contratto di apertura di credito, residua esclusivamente un debito di mora a carico del correntista) impone appunto la necessita' di verifica l'esistenza di usi normativi bancari di deroga al divieto di anatocismo trimestrale sancita dall'art. 1283 c.c. e art. 8 preleggi al c.c. e l'eventuale legittimita' degli usi medesimi. E' noto infatti come ai sensi dell'art. 1283 c.c., la produzione di interessi su interessi sia vietata, fatta eccezione per i casi in cui ricorrono le condizioni previste dalla norma medesima: a) convenzione posteriore alla scadenza dei primi interessi o, b) domanda giudiziale volta al pagamento degli interessi; c) necessita' che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi. Cio', come recita la stessa norma, "in mancanza di usi contrari". E' noto altresi' come in applicazione della norma suindicata la giurisprudenza di legittimita' piu' recente (Cass. 16 marzo 1999, n. 3096; Cass. 30 marzo 1999, n. 3096; Cass. 11 novembre 1999, n. 12507), mutando un indirizzo ampiamente consolidato, abbia concluso per la nullita' della clausola, contenuta in un contratto bancario, che prevedeva la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente (e non invece per quelli attivi a favore del cliente medesimo) in quanto basata su un uso negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria. In particolare la Cassazione ha ritenuto che non esplicano alcun ruolo le c.d. norme bancarie uniformi, predisposte dall'A.B.I. in quanto prive di natura normativa a consuetudinaria, ma dotate soltanto di natura pattizia, trattandosi di condizioni generali di contratto indirizzate dall'associazione alle banche associate. Anzi, come hanno osservato i giudici di legittimita', il fatto che nei contratti bancari si sia sempre avvertita la necessita' di inserire l'anatocismo sotto forma di capitalizzazione trimestrale degli interessi, lungi dal dimostrare l'esistenza di un uso normativo o consuetudinario (avente la stessa natura delle norme dettate dal legislatore e come queste da rispettare ed osservare), sta proprio a dimostrare il ricorso ad uno strumento contrattuale che si sostanzia in clausole uniformi da far sottoscrivere al cliente. In tale situazione di fatto il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, e' intervenuto a modificare l'art. 120 t.u. bancario, di cui al decreto legislativo 7 settembre 1993, n. 385, con la modifica della rubrica che viene sostituita dalla seguente "Decorrenza delle valute e modalita' di calcolo degli interessi, e con l'aggiunta di un secondo comma al citato art. 120 che recita: "Il Circ stabilisce modalita' e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attivita' bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto correnti sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicita' nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori nonche' di un terzo comma che recita: "Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilira' altresi' le modalita' e i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia puo' essere fatta valere solo dal cliente ". Il decreto legislativo sopra indicato, in sostanza, oltre ad avere previsto la riserva esclusiva in favore del Cicr della competenza di stabilire le modalita' e i criteri per la produzione degli interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio della attivita' bancaria (con l'importante precisazione che tale previsione non potra' essere limitata alla capitalizzazione degli interessi operata a favore della banca, nei rapporti cioe' nei quali la banca e' creditrice, ma anche alla capitalizzazione degli interessi operata a favore del cliente), ha anche previsto al comma 3 la sanatoria di clausole nulle attraverso una disciplina transitoria di carattere retroattivo. Si e' gia' ampiamente discusso se la disposizione sopra indicata debba leggersi quale norma di interpretazione autentica o debba invece qualificarsi come norma innovativa "nella parte in cui subordina de futuro la determinazione del tasso di capitalizzazione degli interessi bancari alla delibera del Cicr, cui accede una deliberatoria di validita' delle clausole di trimestralizzazione stipulate sotto il regime previgente" (Trib. Milano, sez. VIII, 21/23 dicembre 1999 nella causa Renello - Unicredito S.p.a.). Della legittimita' costituzionale di tale norma deve, ad avviso di questo giudice, dubitarsi sotto vari profili: 1. - Violazione degli artt. 3 e 76 della Costituzione. La tecnica legislativa utilizzata al fine della modifica dell'art. 120 t.u. bancario e' quella della delega contenuta nell'art. 1, quinto comma, legge comunitaria 24 aprile 1998, n. 128. Il Presidente della Repubblica ha, quindi, emanato il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 4 ottobre 1999 ed entrato in vigore il 19 ottobre 1999) in forza della delega contenuta nell'art. 1, comma 5 della legge comunitaria 24 aprile 1998, n. 128, il quale stabiliva che il legislatore delegato avrebbe dovuto osservare e rispettare i principi e i criteri direttivi a suo tempo stabiliti nell'art. 25 della legge 19 febbraio 1991, n. 481, sulla base della quale venne emanato, nel 1993, il t.u. bancario del 1993. Piu' specificamente, nel preambolo del decreto legislativo indicato si legge infatti (secondo l'indicazione di cui all'art. 76 della Costituzione) che le fonti normative dello stesso devono identificarsi: a) nell'art. 25 della legge 18 febbraio 1992, n. 142, concernente l'attuazione della direttiva CEE n. 89/464; b) nell'art. 1, comma 5, della legge 24 aprile 1998, n. 128, recante disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alla Comunita' europea; c) nel decreto legislativo 19 settembre 1993, n. 385, e cioe' nel t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia; d) nel decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, contenente il t.u. in materia di intermediazione finanziaria. Puo' rilevarsi riassuntivamente come la delega consentisse al Governo la emanazione di un testo unico in attuazione delle direttive della Comunita' europea e coordinato con le altre disposizioni vigenti nella materia. Ora, non soltanto non e' possibile rinvenire alcun riferimento alle tematiche dell'anatocismo nelle direttive comunitarie, ma anche nell'ambito del t.u. bancario del 1993 non era contenuto il benche' minimo riferimento a tale meccanismo. Per quanto in particolare si riferisce alle direttive comunitarie, deve rilevarsi come l'art. 25 della 18 febbraio 1992, n. 142 (relativo alla attuazione della direttiva n. 89/464/CEE) intitolato "Accesso all'attivita' degli enti creditizi ed esercizio della medesima: criteri direttivi", prevede esplicitamente che l'attuazione della direttiva suindicata debba avvenire secondo una serie di principi specificamente elencati relativi alle attivita' di raccolta di depositi o fondi (lettera A), alla attivita' di vigilanza sull'attivita' esercitata in Italia da banche estere (lettera B), alla prestazione di servizi in Italia da parte di succursali di banche estere (lettera C), alla disciplina della pubblicita' dei propri servizi da parte degli enti creditizi autorizzati (lettera D) ed un generico richiamo alla possibilita' di adottare ogni altra disposizione necessaria per adeguare alla direttiva la disciplina vigente per gli enti creditizi autorizzati in Italia. Ma, ne', come risulta evidente, la legge n. 142 del 1992, ne' la direttiva 89/464 della CEE contengono il pur minimo accenno alle "modalita' di calcolo degli interessi". Ad analoghe conclusioni conduce l'esame relativo alla seconda legge delega menzionata nella premessa del decreto legislativo di cui si discute e cioe' l'art. 1, comma 5, della legge 24 aprile 1998, n. 128, contenente disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alla Comunita' europea. Anche tale testo che contiene una serie minuziosa di disposizioni volte ad imporre l'armonizzazione della disciplina di diritto interno ad una serie di direttive CEE, non contiene ne' direttamente, ne' per relationem, cioe' con riferimento alle direttive comunitarie nn. 95/26 e 77/789, alcuna disposizione o principio avente ad oggetto la disciplina dei singoli contratti bancari e, piu' in particolare, le modalita' di calcolo degli interessi. Non puo' quindi trovare alcuna giustificazione, anche ove si voglia interpretare il potere di delega del Governo nel modo piu' ampio, la creazione di norme di legge del tutto innovative, con le quali viene in sostanza prevista la possibilita' per le banche di inserire nei contratti clausole anatocistiche nell'ambito delle modalita' che potranno essere stabilite dal Cicr e addirittura viene prevista retroattivamente, con norma di favore per una delle parti del contatto (la banca) e a danno dell'altro contraente (il cliente) la sanatoria di clausole anatocistiche che le banche, in violazione dell'ancora vigente art. 1283 c.c. (cosi' come ritenuto dalla migliore piu' recente giurisprudenza) hanno inserito nei contratti. I limiti della delega non possono consentire al Governo la creazione di una disciplina completamente nuova dell'anatocismo e delle convenzioni anatocistiche, in quanto la ammissibilita' o meno dell'anatocismo e ancor piu' la sanatoria ex lege di clausole anatocistiche nulle, costituisce una scelta assolutamente estranea al contenuto della delega e rappresenta una palese violazione dei confini e dei limiti di intervento concessi al legislatore delegato, in relazione ai potere di apportare modifiche al testo unico bancario, rispetto al quale la previsione del comma 3 dell'art. 25 d.lgs. 4 agosto 1999, di sanatoria delle clausole anatocistiche dichiarate nulle dalla Cassazione, costituisce un evidente eccesso di delega e contrasta con l'art. 76 della Costituzione. 2. - Violazione degli artt. 3, 24, 97 della Costituzione per irragionevolezza e arbitrarieta' della validazione retroattiva di clausole contrattuali. Il principio di irretroattivita' della legge, pur essendo dalla Costituzione previsto con riferimento alla norma penale, deve pero' ritenersi principio generale della nostra legislazione, tanto da essere sancito dall'art. 11 delle preleggi, funzionalmente suscettibile quindi di imporsi al legislatore. E' proprio sulla base di queste considerazioni che la giurisprudenza della Cassazione ha anche da ultimo stabilito come la norma di legge innovativa non possa essere suscettibile di interpretazione retroattiva (Cass. Sez. Unite 27 gennaio 1999, n. 4, in Foro It. 1999, I, 458). Deve d'altro canto escludersi la possibilita' di aggirare il principio di irretroattivita' della legge attribuendo carattere interpretativo alla norma innovativa. Perche' una norma possa qualificarsi come interpretativa, e' necessario non solo che il legislatore identifichi con sufficiente chiarezza la disposizione quale tale, ma anche che essa effettivamente risponda alla funzione di chiarire il senso di norme preesistenti o di imporre una delle possibili varianti di significato di tale norma preesistente (Corte costituzione 12 luglio 1995, n. 311, Corte costituzionale 5 novembre 1996, n. 386). Nel caso in esame non pare sia possibile riconoscere tale carattere alla norma di cui si discute e cio' sia perche' nel testo della nuova disposizione normativa non e' contenuto alcun richiamo all'art. 1283 c.c., cioe' alla norma che impone il divieto delle clausole anatocistiche, sia perche' in realta' la disposizione medesima appare proprio rivolta ad imporre una applicazione della legge diversa da quella alla quale la meditata opera della giurisprudenza era pervenuta. In altre parole, il nuovo testo legislativo non contiene alcuna norma che possa saldarsi sul piano interpretativo con l'art. 1283 c.c., cosi' da dar luogo ad un precetto unitario. La nuova disciplina ha invece inammissibilmente convalidato retroattivamente le clausole anatocistiche e cio' in palese contrasto con i principi in materia di retroattivita'. 3. - Violazione degli artt. 3, 41, 101 della Costituzione per violazione dei principi di ragionevolezza ed uguaglianza. Il criterio di ragionevolezza, contenuto nell'art. 3 della Costituzione, quale principio di uguaglianza, che si traduce in un "generale canone di coerenza dell'ordinamento" (Cost. n. 204/1982), viene violato ogniqualvolta una "norma generale" valida sia ingiustificatamente derogata da una disciplina particolare. La violazione successiva di clausole contrattuali nulle o comunque inefficaci contrasta con l'esigenza di assicurare un trattamento ragionevolmente omogeneo tra tutti coloro che avendo subito un onere illegittimo in relazione alla applicazione di interessi anatocistici (e cio' particolarmente ora che la nullita' delle relative clausole e' stata piu' volte accertata dalla Suprema Corte) hanno il diritto di opporre la inesigibilita' delle pretese della banca. La irragionevolezza della situazione su indicata appare ancora piu' evidente laddove si consideri che, pur non essendo il legislatore intervenuto sulla norma civilistica che stabilisce il divieto di anatocismo, lo stesso e' imperativamente intervenuto a sanare clausole contrattuali che l'interpretazione giurisprudenziale piu' evoluta aveva giudicato radicalmente nulle e cio' ancora una volta nell'ottica di una palese violazione del principio di uguaglianza e di parita' di trattamento. Il provvedimento impugnato e' senza ombra di dubbio intrensicamente finalizzato a favorire una delle parti del rapporto contrattuale (la banca) a danno dell'altra parte (il cliente), il che peraltro appare tanto piu' grave in quanto la parte favorita e' quella economicamente e contrattualmente piu' forte, in tal senso ancora una volta ponendosi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. L'intervento legislativo si e' inserito nell'ambito di clausole contrattuali non solo sottraendo queste clausole al necessario ed opportuno intervento interpretativo della autorita' giudiziaria, ma addirittura alterando l'equilibrio delle rispettive posizioni cosi' da privilegiarne alcune e danneggiarne altre. In tal senso si puo' legittimamente dubitare che la norma si ponga in contrasto anche con l'art. 41 della Costituzione dal momento che la stessa, attribuendo un arbitrario vantaggio alle banche, altera le regole della concorrenza influenzando irragionevolmente il libero esercizio dell'iniziativa economica privata. 4. - Violazione dell'art. 3 della Costituzione in relazione al principio dell'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica e nella certezza del diritto proprio dello stato di diritto. La recente sentenza della Corte costituzionale 27 ottobre-4 novembre 1999, n. 146, ha dichiarato la incostituzionalita' di norme retroattive proprio con riferimento alla lesione di valori costituzionalmente protetti costituiti dall'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica e nella certezza del diritto. La scelta operata dal legislatore di sancire retroattivamente la validita' di clausole contrattuali nulle per violazione dell'art. 1283 c.c., lede le aspettative della clientela di poter contare su regole giuridiche precise ed indiscutibili ed in particolare proprio su quelle regole di diritto che sanciscono il divieto di tali clausole. Tale scelta e' tanto piu' assurda in quanto gli effetti di tale sanatoria sono destinati a riflettersi su rapporti contrattuali gia' in corso e rispetto ai quali il cliente non ha alcuna possibilita' di difesa, diversamente da quanto avviene allorche' una determinata disciplina sia destinata ad operare con riferimento al futuro cosi' da consentire al cliente di recedere dal rapporto (allorche' questo sia gia' in corso) o di non stipulare alcun contratto (allorche' il contratto medesimo debba ancora essere stipulato). Questo giudice, considerata quindi la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sopra prospettata in relazione al presente giudizio nel quale, come si e' detto nelle premesse, si invoca (tra l'altro) l'applicabilita' della disposizione di cui al terzo comma dell'art. 25 d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342, applicabilita' contestata dal fallimento convenuto che ne ha eccepito la nullita'.